E’ difficile sedersi davanti alla tastiera – nessuno scrive più con la penna – e riuscire a entrare in quello spazio di sospensione dove si produce la scrittura in giorni come quelli che stiamo vivendo.

Ha sostenuto lo psicoanalista francese Pontalis che l’atto dello scrivere  si produce in qualche modo dal bisogno di sfuggire al vuoto. Quello interiore? Non saprei dire.

Quella che stiamo vivendo è una esperienza che inesorabilmente ha creato un prima e un dopo. Una sorta di taglio, un taglio netto e deciso. Isolati, chiusi nelle nostre case, viviamo affidati innanzitutto a noi stessi. Certo, bisogna (o bisognerebbe) essere “capaci di essere soli”. Ma questa esperienza a me pare un essere troppo soli. Troppo affidati a noi stessi. Alle nostre risorse, ai nostri pensieri, alle nostre paure. E a volte, i libri – compagni o strumenti di evasione – non ce la fanno a portarci altrove.

Freud diceva che non siamo fatti per troppa verità. E neppure per troppa realtà, forse. Qui la realtà si impone, come un macigno. Questa mattina, alle undici, ho fatto un tentativo verso la leggerezza (o il bisogno di condivisione) e sono uscita sul balcone con la radio accesa. Lucio Battisti, come in tutte le stazioni radio, cantava La canzone del sole. Ma sui balconi attorno a me non c’era nessuno. E Battisti cantava solo dalla mia piccola radio nera.

Ma la giornata era di una primavera struggente. Luce, sole, tepore. E sono rimasta sul balcone. Anche se attorno a me non c’era nessuno.

“Avanti, viaggiatori!”, come ha scritto T.S. Eliott.

 

Questo piccolo scritto è dedicato alla mia cagnolina, che proprio in questi giorni mi ha lasciata.